Tutto questo un giorno sarà tuo: Le motivazioni del passaggio generazionale
È sorprendente osservare quanto poco sia pianificato e organizzato un processo così importante, ma soprattutto così inevitabile come il passaggio generazionale.
Programmiamo meticolosamente tutto: vacanze, matrimoni, carriere, la nascita dei figli, serate con amici e fine settimana di relax, prendendo in considerazione scrupolosamente, calendario e calcolatrice a mano, tutti i fattori coinvolti… Mentre il passaggio nelle mani degli eredi dell’albergo viene affidato un po’ al caso, al “si vedrà”, quasi alla fatalità di un destino che deve decidere per noi come, quando e perché l’azienda di famiglia cambierà proprietario.
Nel fotografare i motivi di tale mancanza di organizzazione emerge con prepotenza la paura, spesso non conscia e sicuramente non dichiarata, del fondatore ad immaginare un’uscita di scena dalla sua azienda, che spesso è fusa con la sua vita.
È una piccola morte e in quanto tale fa paura, programmarla è un atto di coraggio che pochi riescono a fare serenamente.
Inoltre, si teme per la fine che farà l’albergo una volta che gli eredi prenderanno il potere, per cui la delega viene gelosamente sciorinata con una lentezza e una parsimonia spesso frustrante e mortificante per i figli.
Ecco perché è assolutamente necessario per i fondatori immaginare e soprattutto desiderare un dopo realistico e soddisfacente.
Un vero imprenditore non va mai in pensione, per cui costruirsi un ruolo attivo nella rappresentanza nelle associazioni di categoria potrebbe costituire una buona opportunità di continuare a esercitare, in modo attivo, la propria autorevolezza, mettendo a disposizione l’esperienza e le conoscenze accumulate negli anni.
Avere un piano B sufficientemente buono contribuisce alla serenità nel lasciar andare il bisogno di controllo e la paura, che è il primo motivo per cui il fondatore non vuole percorrere con razionalità i passaggi necessari per il cambio di mano nella gestione dell’albergo.
Si possono così evitare i sabotaggi, più o meno velati, la sfiducia e la mancanza di delega che spesso segnano la quotidianità all’entrata nell’azienda degli eredi.
Perché per ogni inizio è necessaria una fine, e più la fine sarà concordata e desiderata, più l’inizio sarà di buon auspicio.
Neanche dal punto di vista degli eredi le cose non sono facili.
Spesso le motivazioni che spingono i figli a succedere ai genitori non sono intrinseche, ma conseguente ad un disegno già immaginato dai genitori e imposto a suon di sensi di colpa e del dovere, come unico futuro accettabile.
I figli si possono sentire inadeguati, indegni, soprattutto quando hanno dovuto crescere nell’ombra di personalità forti e accentratori.
La paura di non farcela, di non essere all’altezza di un ruolo che negli anni hanno visto coperto in modalità che a loro non appartengono può portare a atti di auto-sabotaggio, alla fuga della responsabilità e a conflitti esplosivi, soprattutto se i figli vengono sistematicamente sminuiti o sfiduciati dai genitori.
In quest’ottica è fondamentale per i figli percorrere un processo di maturazione emotiva per riuscire a capire chi sono e cosa vogliono a prescindere da come vengono visti dai genitori.
Tagliare anche metaforicamente il cordone ombelicale serve per affermarsi nella loro diversità e separatezza, che sono proprio le basi per potere avere una relazione adulta con i propri genitori e di conseguenza con il ruolo di erede, non più sbiadita e incompiuta fotocopia del fondatore, ma portatore di energia vitale, prezioso per la sua diversità di opinioni e modalità di leadership, con il suo bagaglio di conoscenze e competenze necessario per far progredire l’albergo oltre ogni aspettativa.
Antonio: In famiglia eravamo in quattro. Essendo due figli, in realtà, non ci siamo mai posti il problema di chi dovesse succedere a nostro padre. Abbiamo dato per scontato che entrambi avremmo preso le redini aziendali.
È stato quando io e mia sorella abbiamo scelto il nostro percorso di studi che ha iniziato a delinearsi una sorta di spartiacque. Non una cosa imposta, quanto piuttosto una cosa naturale.
Io ero sempre più immerso nell’ azienda, mentre mia sorella aveva sì un ruolo partecipativo – in quanto componente della famiglia – ma più distaccato.
Sembrava che lei avesse più “diritto” allo studio e io più “diritto” al lavoro in azienda.
Forse erano le prime motivazioni a rafforzarsi in uno e ad affievolirsi nell’altro o, forse, chi avrebbe dovuto cedere le redini stava condizionando – anche se in modo indiretto – le nostre scelte.
In realtà era una sorta di effetto yo-yo.
Poi avvenne un episodio, che io considero la chiave di svolta della vita famigliare e aziendale, e che delineò più chiaramente tutto.
Fu un punto di rottura inevitabile, che prima o poi sarebbe arrivato, ma giunse nel momento più inaspettato: nel corso di un riassetto aziendale – che nel frattempo era diventato un business allargato a più settori – noi figli scoprimmo che anche da un punto di vista formale nostro padre aveva il suo braccio destro pronto a prendere il nostro posto. Quello che né lui né noi ancora sapevamo era che questa risorsa stava cercando di sabotare la nostra azienda, dall’interno.
Arrivò un cataclisma vero e proprio. E come in ogni esplosione degna di tale nome, dopo la deflagrazione, ci fu il fumo, le ceneri e un mare di detriti a terra. Ma è in questi momenti che si scopre chi è rimasto sul campo di battaglia e chi si è defilato (o forse, non c’è mai stato).
Io sono rimasto. Con la speranza di una investitura formale, o di una delega del capo. Che però si è infranta. E il ruolo di “capo” me lo sono dovuto conquistare, da solo, sul campo, senza riconoscimento alcuno. Ho dovuto dimostrare con i fatti, con i numeri e con l’innovazione che il cambiamento era inevitabile.