Risultati hotel Italia (ed Europa) durante la pandemia e la “minaccia” seconda ondata
Come anticipato in precedenti articoli, eccoci qui a registrare con immenso piacere i risultati di Agosto 2020, che segnano per gli hotel in Italia il primo sorpasso post-covid sul 2019 su tutti i parametri chiave (occupazione, revpar, ADR).
I risultati nel grafico, presi su un campione di 300 strutture – (hotel da 3 a 4 stelle, da 15 a 200 camere, dimensione media del campione 40 camere, in linea con la dimensione media degli hotel italiani secondo Federalberghi) – sul territorio nazionale che utilizzano il nostro Revenue Management software Revolution Plus e i nostri servizi di consulenza, evidenziano come a livello nazionale i valori di occupazione e revpar (revenue per available room) abbiano superato quelli dello stesso mese del 2019.
Il campione è composto da hotel di mare (130), città d’arte/leisure (60), montagna (50), lago (30), città business (30).
Questa distribuzione del campione è in linea con le proporzioni dell’offerta ricettiva tra i suddetti cluster a livello nazionale (avendo l’Italia quasi 8.000 km di costa, chiaramente ha una predominanza di hotel di mare).
Registriamo a livello complessivo nazionale un incremento rispetto ad agosto 2019 di 1 punto su occupazione (88,65% vs 87,76%), di 3 euro su revpar (110,40 € vs 107,06 €), di 5 euro su prezzo medio di vendita o ADR (126,71 € vs 121,99 €).
Mare, montagna e lago
Analizzando i dati nel dettaglio, chiaramente questi risultati nazionali sono stati trainati in modo evidente dalle destinazioni prettamente vacanziere di mare, montagna e lago che hanno fatto leva su una fortissima domanda domestica (più del 80%).
Per queste destinazioni il calo degli stranieri dovuto alle restrizioni sui viaggi è stato compensato da un aumento di viaggiatori italiani (se gli stranieri non potevano venire in Italia, è altrettanto vero che gli italiani non potevano andare all’estero), un trend che ogni paese del mondo ha visto in questi mesi di pandemia.
Questa è la chiara dimostrazione che gli hotel in questo tipo di destinazioni possono ottenere ottimi risultati anche quando gli aeroporti sono chiusi e non arrivano stranieri, chiaramente a condizione di adottare la giusta strategia di vendita per attirare questo tipo di segmento domestico.
Queste destinazioni non hanno mai davvero sofferto in modo evidente la crisi a giudicare dagli ottimi risultati dei mesi scorsi.
Chiaramente il lockdown ha costretto ad aprire più tardi del solito (giugno invece di aprile o maggio in molti casi), ma l’ottimo trend prenotativo di settembre (su cui vi aggiorneremo nei prossimi articoli) ci porta a pensare che la stagione, clima permettendo, possa finire più tardi (a ottobre inoltrato, facendo leva anche sull’aumento costante e progressivo dei turisti europei in Italia) consentendo a queste strutture di recuperare i mancati ricavi dei mesi del lockdown e finendo la stagione con un potenziale pareggio o incremento sul fatturato del 2019.
Le città
Per quanto riguarda le città, il discorso chiaramente è molto più complesso, essendo l’unica tipologia di destinazione che ha davvero sofferto le conseguenze della pandemia e del lockdown.
Le città, sia a vocazione business che leisure (Roma, Firenze, Milano, Torino ecc.), registrano ancora un calo del revpar rispetto al 2019, (-22% per città business e -24% per città leisure, calo dovuto come già detto in altre occasioni alla diminuzione di stranieri a seguito delle restrizioni ai viaggi, alla mancanza di congressi ed eventi ecc.), ma di misura nettamente inferiore a quella riscontrata nei mesi scorsi. Infatti è da evidenziare l’imponente balzo in avanti di questi valori (occupazione e revpar) rispetto ai mesi scorsi.
Basti pensare che l’occupazione sulle città d’arte/leisure è passata dal 52% di luglio (media calcolata solo sulle strutture aperte) al 72% di agosto.
Sia chiaro, questi risultati non indicano assolutamente che le città sono di nuovo affollate come nel 2019. E’ evidente a tutti che la domanda (misurata in numero di presenze e arrivi) per le città è ancora nettamente inferiore rispetto a quella del 2019.
Tuttavia questi miglioramenti delle città, rispetto ai mesi passati, sono spiegabili con una serie di ragioni.
In primis il forte aumento di domanda straniera europea, (che per questo tipo di destinazioni è ancora più determinante rispetto a destinazioni di mare, montagna o lago) rispetto ai mesi passati.
Un aumento chiaramente legato al ripristino e regolarità dei voli in ambito europeo e a una maggiore serenità e sicurezza da parte delle persone nei confronti del viaggio oltre frontiera.
Infatti dal grafico che segue si può riscontrare l’interessante mix di nazionalità (a totale dominanza europea) per città internazionali come Roma, Milano, Firenze, Venezia, Torino, Napoli.
Si tratta di clientela straniera business (che viaggia comunque per ragioni di lavoro tra paesi diversi) ma anche clientela leisure che approfitta del particolare momento storico per visitare città famose in tutto il mondo a prezzi tendenzialmente più vantaggiosi, meno affollate del solito e con un ottimo clima, godendone a pieno tutta la bellezza.
Un altro aspetto che ha sicuramente inciso sulle ottime performance delle città è la riduzione dell’offerta e concorrenza in termini di numero di hotel disponibili, dato che una discreta percentuale di hotel di città (almeno tra 25 e 30% dell’offerta totale come riportato da STR, la società di benchmark più attendibile nell’industria alberghiera con 68.000 hotel in 180 paesi del mondo) non ha ancora riaperto da quando la pandemia è scoppiata (questo dato coincide anche con quello di Booking.com facendo una semplice ricerca per destinazione).
Questo significa che il calo della domanda rispetto al 2019 è stato parzialmente bilanciato da un calo dell’offerta e della concorrenza.
Per cui quegli hotel che hanno deciso di rimanere aperti in questi mesi, adottando chiaramente una efficace strategia di vendita e approfittando della minore concorrenza, hanno raggiunto ad agosto questi ottimi livelli.
Siamo consapevoli che da settembre in poi l’offerta e la concorrenza aumenterà perché una percentuale di hotel riaprirà (mentre una percentuale forse non riaprirà mai più), ma ci aspettiamo che da settembre in poi aumenti parallelamente anche la domanda per via del ritorno degli eventi e congressi, e per un graduale e naturale spostamento delle preferenze climatiche e stagionali dei viaggiatori leisure dalle destinazioni di mare e montagna a quelle di città, che vedranno chiaramente una forte concentrazione nei weekend e una finestra di prenotazione cortissima (in questo periodo post-covid oltre il 50% delle prenotazioni per le città, come riportato anche da Booking.com, avviene nella finestra di prenotazione 0-7 giorni)
Ad ogni modo questi risultati sono estremamente positivi se rapportati alle previsioni catastrofiche fatte da molti addetti ai lavori nei confronti del turismo.
Anche perché se consideriamo che statisticamente il break even si raggiunge in un range di occupazione tra 30 e 60%, ai livelli di occupazione e revpar raggiunti ad agosto possiamo parlare tranquillamente di sostenibilità e redditività economica per gli hotel di città.
E si tratta di risultati in linea con la ripresa generale dell’industria alberghiera in Europa (che ad agosto è salita fino a toccare quota 45% d’occupazione per la prima volta dall’inizio della pandemia, e con questo trend di crescita continuo e inarrestabile potremmo rivedere entro fine anno i livelli di occupazione standard raggiunti in Europa nell’epoca pre-covid, che si aggirano attorno al 70%).
Questi numeri sono sicuramente di buon auspicio in vista dei mesi futuri, dove il trend sembra essere promettente e su cui vi aggiorneremo nei prossimi articoli.
La “minaccia” seconda ondata e le differenze con la prima ondata
Chiaramente ora che la ripresa del turismo e dell’industria alberghiera si è affermata in modo chiaro e incontestabile, almeno in Europa (come certificato da STR, Booking.com, Expedia e altre istituzioni del settore), in molti si interrogano sugli effetti che la cosiddetta “seconda ondata”, alimentata da un certo terrorismo mediatico, avrà sull’industria turistica e alberghiera.
La verità è che ci sono differenze abissali, dal punto di vista scientifico, medico e matematico, tra prima ondata e seconda ondata.
E sebbene ci troviamo già nel pieno della seconda ondata in tutta Europa (nessun paese escluso), in quanto i casi stanno crescendo quotidianamente e continueranno a crescere, è altamente inverosimile che la seconda ondata abbia lo stesso effetto devastante che ha avuto la prima ondata sull’industria turistica.
Per una serie di ragioni.
Innanzitutto, non c’è dubbio che l’Europa sia molto più sicura adesso che i casi stanno crescendo lentamente (ma efficacemente tracciati e isolati) che non a gennaio e febbraio, quando crescevano a velocità esponenziale senza che nessuno ne fosse al corrente, provocando il disastro di marzo e aprile che tutti conosciamo.
E quando si parla di ricoveri/terapie intensive e decessi a causa del covid, come si può notare dai grafici a seguire (fonte: Ministero della Salute), è appropriato parlare oggi di curva piatta e bassa, piuttosto che di vera e propria seconda ondata.
Sono cambiate parecchie cose tra la prima ondata di febbraio/marzo e questa seconda ondata europea.
In primis, durante la prima ondata, prima che fossero identificati i primi casi conclamati, nessuno era davvero preparato e attrezzato in Europa e nel mondo.
Non lo era il sistema sanitario e gli ospedali, non lo erano i governi, non lo erano i cittadini.
Il sistema di diagnosi era sicuramente inefficiente (a complicare le cose c’era l’influenza stagionale che condivideva gli stessi sintomi), il sistema di screening riguardava solo chi aveva sintomi, trascurando tutto il sottobosco degli asintomatici, i sistemi di protezione individuale erano insufficienti.
E la popolazione era completamente ignara dei rischi del virus, non avevamo tutte le notizie e certezze che abbiamo oggi.
Insomma, tutta una serie di fattori che messi assieme hanno portato all’emergenza sanitaria di marzo e aprile, con molti ospedali posti sotto stress e incapaci di curare tutti.
Oggi invece assistiamo ad una situazione in cui il sistema di diagnosi, tracciamento, isolamento ha compiuto enormi passi in avanti (e sicuramente continuerà a migliorare ancora).
Gli ospedali hanno precisi protocolli per gestire la situazione ed eventuali nuovi aumenti di casi, ci sono molti più posti letto e reparti attrezzati, molti più sistemi di protezione.
Le cure e terapie sono migliorate.
Ogni attività pubblica o privata è sottoposta a dei protocolli di sicurezza per limitare i rischi di contagio.
E ci troviamo di fronte a una situazione in cui i singoli individui tendono a seguire una serie di norme e comportamenti (mascherina, distanziamento sociale ecc.) che mirano a ridurre al minimo il rischio di contagio.
Se mettiamo a confronto i casi che vedevamo a marzo e aprile e li confrontiamo con quelli di oggi, emergono differenze gigantesche.
Fermo restando che i casi di marzo e aprile erano fortemente sottostimati (una recente indagine del ministero della salute e dell’Istat basata sui test sierologici ha dimostrato che il virus ha toccato una popolazione sei volte superiore a quella delle cifre ufficializzate nei mesi di marzo e aprile), oggi vediamo proporzioni e dimensioni completamente diverse.
Se il numero più alto ufficiale di contagiati giornalieri in Italia durante la prima ondata di marzo è stato 6557 (ma che verosimilmente erano 6 volte superiori, quindi circa 40.000), concentrati tra l’altro in pochissime aree, oggi abbiamo in media un migliaio di casi al giorno, distribuiti per lo più su tutto il territorio nazionale.
Del resto la velocità di propagazione del virus è completamente diversa.
Se confrontiamo le due situazioni è chiaro che a gennaio e febbraio, quando non c’era ancora il lockdown e il 100% della popolazione non seguiva le regole anti-covid semplicemente perché non c’erano ancora queste regole, e avevamo decine di migliaia di casi positivi non identificati che circolavano liberi e incontrollati, la velocità di propagazione del virus era almeno dieci volte superiore a quella di oggi, dove (quasi) tutti seguiamo le regole di distanziamento e protezione, e il sistema di diagnosi/tracciamento/isolamento è nettamente migliore a quello che c’era a gennaio e febbraio.
Inoltre oggi viene effettuato un numero di tamponi superiore a quello che veniva effettuato a marzo e aprile (ad agosto i tamponi giornalieri netti, cioè effettuati per la prima volta su persone mai testate, hanno superato i 50.000 contro la media di 40.000 di marzo e aprile) ma i valori assoluti di casi positivi sono molto più bassi, quindi il rapporto percentuale tra positivi e tamponi effettuati è nettamente più basso (ad agosto riscontriamo una media mensile del 2% contro i picchi del 30% di marzo).
Del resto più tamponi si fanno, più casi asintomatici possono essere trovati (e isolati), più il virus rallenta.
L’aumento dei tamponi è un’operazione fondamentale per tenere il virus sotto controllo.
Quindi l’aumento dei casi è un dato che, preso da solo e non incrociato con altri dati, non dice assolutamente un bel niente.
E questo aumento dei casi positivi non è necessariamente un dato negativo se lo incrociamo con altri dati.
Nel grafico a seguire le barre gialle rappresentano i tamponi giornalieri effettuati da marzo ad oggi, la linea nera rappresenta il rapporto percentuale tra nuovi contagi e tamponi effettuati (fonte:Ministero della Salute).
Da bambino mi hanno insegnato che la matematica non è un’opinione, e questi numeri parlano chiaro.
Senza trascurare un aspetto ancora più importante.
Oggi i ricoveri, terapie intensive e decessi sono in proporzione nettamente inferiori a quelli di marzo e aprile.
Questo perché l’età media dei contagiati si è praticamente dimezzata (passando da 70 a 35) negli ultimi due mesi, come riportato dal ministero della salute.
Questo non significa che prima s’infettavano gli anziani e ora s’infettano i giovani.
I giovani s’infettavano anche prima, durante la prima ondata, ma non venivano testati e tracciati perché asintomatici.
Mentre ad essere testati erano solo quelli che avevano sintomi e che stavano male, e che erano nella grande maggioranza dei casi persone sopra i 70 anni.
Oggi i giovani continuano a infettarsi come prima (continuando nel 90% dei casi a stare bene), ma vengono identificati e tracciati anche quando sono asintomatici, e isolati prima che possano contagiare altre persone (in primis genitori e nonni).
Mentre gli anziani, essendo più vulnerabili ai rischi del virus, tendono ad adottare atteggiamenti sicuramente più prudenti e responsabili, e s’infettano molto di meno rispetto a prima.
Questo fa si che gli ospedali riescano a gestire i casi sintomatici più gravi in totale serenità senza andare al collasso.
La situazione in Italia rispetto alla prima ondata (aumento tamponi effettuati, diminuzione età media dei positivi, calo dei ricoveri e decessi) è analoga a quella degli altri paesi europei
La convivenza col virus
Quindi perché tutto questo clamore mediatico riguardo l’aumento dei casi?
Davvero eravamo così stupidi e ingenui da pensare che una volta ripristinata la libertà di movimento e riaperti i confini regionali e nazionali, i casi si sarebbero azzerati nel corso del tempo?
Tutti sapevano che i casi sarebbero aumentati in modo costante.
Lo sapevano gli scienziati, lo sapevano i politici, lo sapevano i media.
E allora perché questo (ab)uso mediatico di parole forti come “preoccupazione”, “allarme”, “paura”, che crea solo danni enormi al turismo?
Oltre a ventilare l’ipotesi da incubo e irrealistica di un nuovo lockdown nazionale e totale?
L’unica possibilità di azzerare i contagi, in attesa di un vaccino, è che ciascun essere umano si chiuda in casa per almeno un anno e stia lontano almeno 10 metri da ogni altro essere umano.
Uno scenario che porterebbe ovviamente a povertà, depressione, violenze domestiche, suicidi, omicidi, e a danni molto più devastanti per la salute del genere umano di quelli che sta facendo il virus.
Mettiamoci l’anima in pace, i casi continueranno ad aumentare, è matematico.
Ma nella situazione attuale aumenteranno ad una velocità tale da convivere serenamente col virus, e da non portare gli ospedali al collasso e alla necessità di lockdown nazionali.
Qualcuno continuerà ad essere ricoverato per covid (come si viene ricoverati anche per altre malattie), ma nel frattempo qualcuno guarirà e verrà dimesso consentendo un ricambio di posti letto, qualcuno continuerà a morire per covid (come si muore anche per altre malattie), ma il tutto nell’ambito di una situazione sanitaria ordinaria, e non più definibile come emergenza.
E si realizzerà quindi quella che gli scienziati definiscono come l’unica soluzione possibile in una società che non ha ancora un vaccino ma che non può fermare l’economia per troppo tempo nell’obiettivo utopico del contagio zero, ovvero l’adozione di alcune misure di mitigazione sociali e individuali (mascherina, distanziamento fisico, igiene personale ecc.) che garantiscono un passaggio controllato, lento, graduale e innocuo del virus in buona parte della popolazione.
E non ci dimentichiamo che lo stesso Comitato Tecnico Scientifico a marzo suggeriva misure differenziate tra le zone più colpite a livello epidemiologico e il resto del paese.
Quindi oggi sappiamo che a marzo il lockdown nazionale fu probabilmente una misura eccessiva, per quanto accettabile e comprensibile nell’ottica di prendere tempo e capire cosa stava succedendo (quando si tratta di salute meglio sbagliare per eccesso di prudenza).
Ma se il lockdown nazionale di marzo, con quei dati e quella situazione, si è rivelato una misura eccessiva, un lockdown nazionale adesso, con questi dati e con questa situazione, sarebbe una misura senza nessun senso logico, medico, scientifico, matematico.
Oltre ad avere come unico effetto quello di distruggere economicamente un paese.
Del resto anche i matematici dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo del CNR, sulla base dello studio dei modelli matematici, alle attuali condizioni escludono un nuovo lockdown nazionale, per quanto i numeri stiano comunque aumentando e bisogna sempre adottare atteggiamenti responsabili.
E anche nella remota ipotesi, diciamo dello 0,1% (il rischio 0 purtroppo non esiste), che il governo optasse per un nuovo lockdown nazionale, sarebbe una scelta esclusivamente politica, di certo non sanitaria né scientifica.
Una scelta che si tradurrebbe in rivolte violentissime da parte delle persone, e onestamente non vediamo che vantaggio avrebbe il governo a optare per uno scenario del genere di totale impoverimento, violenza e distruzione del paese, senza che ci sia una reale ragione sanitaria.
Poi certo, quando si parla di virus nessuno ha la sfera di cristallo.
Il virus potrebbe anche mutare e diventare più aggressivo, e un giorno potrebbe uscire la notizia che il virus colpisce tutti gli organi del corpo e si trasmette anche attraverso l’acqua, il cibo, gli animali e perché no, Internet e il telefono.
In quel caso allora ne riparleremo. Ma una notizia del genere deve uscire su una rivista scientifica autorevole, non in uno show televisivo o in uno pseudoblog che parla anche di moda e gossip.
L’impatto della seconda ondata sull’industria turistica
La verità è che, in base alle evidenze scientifiche che abbiamo oggi, continuando tutti ad adottare atteggiamenti responsabili, verosimilmente assisteremo a una serie di misure circoscritte e chiusure temporanee, in funzione dello scoppiare di nuovi focolai, che riguarderanno una determinata attività commerciale, una determinata scuola, una o più aree/quartieri di una città ecc.
Ci abitueremo per un po’ di tempo a non poter più fare certe cose (come andare in discoteca, a un concerto o allo stadio) o a farle in modo diverso.
Potremo vedere misure cautelative o restrizioni temporanee verso un paese o l’altro.
Alcuni paesi chiuderanno indiscriminatamente i propri confini a tutti i paesi stranieri (come ha fatto l’Ungheria a partire da settembre) più per ragioni politiche che sanitarie (chi conosce la storia politica del primo ministro ungherese, non può non sospettare che si tratti di una scelta politica)
Potremo vedere qualche evento annullato all’ultimo momento.
Potremo vedere, in funzioni dei fattori sopra descritti, piccoli e temporanei cali di occupazione per qualche settimana, seguiti da riprese altrettanto rapide.
Ma nulla che possa incidere in modo così devastante e generalizzato sull’industria alberghiera e turistica quanto la prima ondata.
Del resto l’organizzazione mondiale della sanità ha recentemente detto che questa pandemia sarà sconfitta in due anni, anche se nel frattempo sarà arrivato un vaccino.
Quindi cosa facciamo in questi due anni? Smettiamo di vivere, lavorare e viaggiare? Ma siamo impazziti?
Il sistema di screening veloce di casi positivi (con risultati entro 15-30 minuti), già presente con successo in alcuni aeroporti italiani e europei, verosimilmente si estenderà presto a tutti gli aeroporti, porti e stazioni internazionali.
Tutti quei paesi che oggi sono ancora chiusi al mondo esterno (con gli aeroporti ancora chiusi) per eccesso di cautela (come molti paesi asiatici), si renderanno conto molto presto che i danni economici di una chiusura al mondo esterno sono molto più devastanti dei danni sanitari di una riapertura (chiaramente controllata) dei propri confini.
Il momento della partenza e arrivo negli aeroporti potrà comportare qualche fastidio in più del normale, ma del resto le persone già dopo l’11 settembre si sono abituate a vivere l’esperienza frustrante degli aeroporti come un piccolo sacrificio in nome del fondamentale diritto e libertà di viaggiare.
15-30 minuti d’attesa sono una sciocchezza rispetto all’obbligo di 14 giorni di quarantena, o peggio ancora, rinunciare a viaggiare perché gli aeroporti sono chiusi e i voli cancellati
Le compagnie aeree, non avendo più l’obbligo di avere i posti centrali vuoti, ma adottando altri rigidi protocolli di sicurezza, possono volare a piena capacità, permettendosi di fare tariffe vantaggiose in periodi di bassa domanda e incentivare a viaggiare.
(Recentemente ho preso diversi voli in Europa e volavano meravigliosamente a 100% di capacità e occupazione come ai bei tempi)
E tutta quella gente che oggi ancora non viaggia per paura del contagio (grazie al cielo la minoranza a giudicare dai numeri esaltanti di agosto in Europa) presto si sveglierà e capirà che non potrà sprecare due anni della propria vita per un virus il cui tasso di letalità (rapporto tra morti e contagiati) nell’ultimo mese si è abbassato drasticamente a 1,19% (contro il 10% di marzo e aprile) e il cui tasso di mortalità (rapporto tra morti e popolazione totale) è sceso a un irrilevante 0,0004%
L’amore per la vita, e per le cose belle della vita come viaggiare, trionferà sulla paura di una stupida particella che si può sconfiggere non solo con un vaccino, ma anche usando un po’ di cervello.
E non è un caso che la Cina, che ha vissuto e superato sia la prima che la seconda ondata (avvenuta a metà giugno, soprattutto nella capitale Pechino, e caratterizzata da un temporaneo lieve calo di occupazione degli alberghi), oggi si ritrova ad avere tutti gli hotel aperti e un’occupazione nazionale del 67%, in linea con quella massima registrata nel 2019, in epoca pre-covid.
Alla faccia dei catastrofisti che prevedevano che il turismo ci avrebbe messo 4 o 5 anni per tornare ai livelli pre-covid.